Baja Divide: i minatori di El Arco

Ci svegliamo un po’ tremolanti, col naso freddo e goccioloso: deve fare un po’ freddino stamattina. Mi sporgo dalla tenda, con solo le braccia fuori dal sacco a pelo tenendo tutto il corpo al calduccio: credo che oggi faremo colazione dentro la tenda e aspetteremo che esca il sole prima di muoverci.
Appena pronto il caffè ci richiudiamo in tenda e prepariamo i bagagli al chiuso e mettiamo il naso fuori solo una mezz’ora abbondante più tardi, quando in lontananza il sole inizia a fare capolino tra le montagne e i cactus.
Controllo il termometro sulla mia bici: 2°. Ecco spiegato il perchè del risveglio tremolante!

Proseguiamo il cammino sulla pista che si fa sempre più sabbiosa, oltrepassiamo un primo passo e quando la strada torna a spianare la sabbia chiara e soffice delinea la nostra direzione in un mondo brullo e sempre più caldo. Dopo appena un’ora abbondante dal via il termometro segna 30°, questi sbalzi termici ci ammazzano ma proseguiamo serenamente, incuranti della temperatura che inizia a farsi rovente e alla impossibilità di rifornirci di acqua.


Un ripido passo su pista cementata, al limite della pedalabilità, ci porta su una specie di altopiano dove un lunghissimo rettilineo apparentemente senza fine sembra che ci porti direttamente all’orizzonte.
”Rancho Piedra Blanca 34km, Cerveza Fria” recita un cartello e la cosa ci rincuora perchè le scorte di acqua iniziano ad abbassarsi e la destinazione finale, El Vizcaìno è ancora lontanissima da qui.
Una rapida occhiata al roadbook e notiamo che al prossimo stop troveremo con relativa facilità cibo e acqua, così ci sentiamo un po’ meno obbligati a centellinare le riserve idriche e cercare di rimanere idratati sarà piú semplice nonostante si sfiorino ormai i 34°.

La lunga interminabile striscia sabbiosa continua, senza curve ad attraversare una lunghissima distesa di cespugli e cactus ma alla fine riusciamo a pedalare abbastanza bene.
Nel primo pomeriggio raggiungiamo finalmente il Rancho, una piccola azienda agricola totalmente autosufficiente immersa in un’oasi di alberi ad alto fusto.

Apriamo il cancello ed entriamo. Sembra deserto ma notiamo un chioschetto con una sorta di listino prezzi appeso al muro. Finalmente notiamo una persona e chiediamo se hanno acqua da venderci così, ci viene aperta la finestra e possiamo comprare i viveri che ci occorrono. Non c’è molto in realtà, alcuni snack, patatine, coca cola e acqua in bottiglia, così, un po’ delusi, sgranocchiamo delle chips ma sorseggiamo una coca ghiacciata che finalmente ci da un po’ di refrigerio.
Dalla costruzione principale, una sorta di grande casa circolare con un bellissimo tetto in paglia, una signora richiama la nostra attenzione: non capiamo bene cosa ci stia dicendo, ma pare che la parola PRANZO sia stata pronunciata… Ci fiondiamo con le gambe sotto il tavolo in tempo zero, tutto apparecchiato, tovaglia, posate e tovaglioli, bicchieri di vetro come non ci capitava ormai da parecchio; ci sfamiamo con il primo pranzo vero da quando siamo partiti da casa! La signora ci porta acqua a volontà, cibo squisito come se fosse il nostro ultimo pasto tanto che, una volta finito, ci vediamo costretti a fare una siesta digestiva sotto il pergolato lì vicino, con le caprette e i vitellini che ci fanno compagnia. Questo agriturismo in mezzo al nulla sembra un piccolo paradiso terrestre ma noi vorremmo proseguire ancora un po’ e torniamo a pedalare, non molto convinti, nel primo pomeriggio.


La strada continua sabbiosa e ci avviciniamo ad un villaggio quando meditiamo di fermarci ma, come sempre, vorremmo defilarci.
”Rancho El Arco è un posto un po’ malconcio dove riuscire a trovare anche solo l’acqua sembra essere un problema” recitano i miei appunti di viaggio, così optiamo per defilarci e campeggiare poco più avanti, ma appena costeggiamo le baracche un po’ decadenti del ranch due uomini ci notano e iniziano a chiamarci con insistenza. Non possiamo far finta di nulla e ci addentriamo nel piccolo villaggio.

Non ci serve nulla, abbiamo appena fatto provviste ma ci viene offerta una cerveza extra fria e ovviamente non possiamo rifiutare.
Ci uniamo ad una sorta di festa, con quattro o cinque uomini, altrettante donne e una ragazzina; stanno facendo un barbeque e veniamo ospitati per la cena. La ragazza più giovane si fa un selfie con noi e lo mette su Instagram vantandosi con le sue amiche di avere due nuovi amici che arrivano dall’Italia.
Mentre sorseggio la mia birra e assaporo un trancio di pesce alla griglia Samy, con una leggera gomitata mi sussurra:
”Marco, hai visto quello?”
”no chi?”
”quello col capello da cow boy bianco… guarda cosa sta facendo!”
Mentre mi parla gli occhi di Samantha sono tra il divertito e lo spaventato, forse più la seconda, così cerco di notare cosa la abbia scossa.
Il “cowboy” sta pulendo la sua pistola che luccica sotto il sole ormai basso del tramonto e sta caricando il tamburo con le pallottole dorate mentre parla e ride coi suoi amici.
”ok, adesso che si fa?” Chiede Samy
”eh, non lo so, ormai siamo qui non è che possiamo scappare… Anche se ce ne andiamo ormai siamo al tramonto e se ci accampassimo qui vicino saremmo comunque vulnerabili!”
Intanto le birrette e le porzioni di pesce continuano ad arrivare nelle nostre mani e si sta facendo tardi.
Mi decido di chiedere ospitalità, ormai siamo qui, e chiedo se ci sia un posto sicuro per passare la notte in tenda, senza arrecare disturbo.
”Disturbo? Amigos , non scherzate, siete nostri ospiti, nessuna tenda, questa sera dormite nel capanno degli operai, potrete fare una doccia e avrete due bei comodi letti a disposizione, e domattina cafecito con noi!”
Titubanti, dopo aver sorseggiato l’ennesima cerveza, ci facciamo accompagnare al capanno.


Avete presente quelle capanne abbandonate dove vengono commessi i crimini più atroci nei thriller americani? Ecco. Quella.
Due brande con materassi zozzi, pareti scalcinate, finestre con un vetro sì e tre no, pavimento in linoleum tutto stropicciato e doccia in cemento, con l’acqua che sgorga direttamente dalla parete attraverso un mozzicone di tubo idraulico.
La doccia è bollente e, adattandosi non è poi così male.
Siamo comunque preoccupati, per arrivare qui ci abbiamo messo due giorni pieni, non c’è campo per poter chiamare a casa, i nostri ospiti girano armati… ci fidiamo o scappiamo nella notte?
Per (falsa) sicurezza incastro la sella sotto la maniglia della porta in modo che non possa essere aperta visto che non c’è la chiave e vorremmo cercare di non avere visite inaspettate nella notte.
Nemmeno il tempo di bloccare la porta che sentiamo bussare: “amigos, amigos!!! Mi sono dimenticato di darvi questo!”
apro la porta più veloce che posso cercando di non far notare il mio lucchetto improvvisato e il nostro ospite mi allunga un rotolo di carta igienica e la password della wifi. “E mi raccomando, domattina cafecito!” Ci rammenta.

Adesso siamo un po’ più sereni, se ci danno la password per la wifi sanno che possiamo poi comunicare col mondo, non ci vorranno fare pelo e contropelo dai!
Prima che si spengano i generatori e che piombi il buio nella nostra stanzetta notiamo dei cartelli comportamentali su come trattare i rifiuti pericolosi stampati dalla Groupo Mexico.


Ci rilassiamo un po’, comunichiamo la nostra posizione ai nostri cari a casa e, come i gatti, ci addormentiamo con un orecchio alzato e un occhio semi aperto.
Ovviamente anche se in un letto dormiamo avvolti nei nostri sacchi a pelo ed evitiamo di poggiarci direttamente sulle lenzuola in stile Sacra Sindone e sui cuscini macchiati.

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